Soggetto/Subject: Fabio Piccioni, Antonio Cesare Corti
Sceneggiatura/Screenplay: Riccardo Freda, Fabio Piccioni, Antonio Cesare Corti
Interpreti/Actors: Stefano Patrizi (Michael Stanford, detto Mike), Martine Brochard (Shirley), Silvia Dionisio (Deborah), Henri Garcin (Hans Schwartz), Laura Gemser (Beverly), John Richardson (Oliver), Anita Strindberg (Glenda), Fabrizio Moroni
Fotografia/Photography: Cristiano Pogany
Musica/Music: Franco Mannino
Scene/Scene Design: Giorgio Desideri
Montaggio/Editing: Riccardo Freda
Produzione/Production: Dionysio Cinematografica, S.N. Cinévog, Paris
Distribuzione/Distribution: Martino
censura: 75784 del 31-10-1980
Altri titoli: Follia omicida, L'ossessione che uccide, Deliria, Murderous Obsession, Murder Syndrome
Confusissima vicenda di un giovane attore marcato da un terribile trauma della sua infanzia. Ritiratosi con un pugno di amici nella villa di famiglia, insieme alla madre – un po’ ninfomane e incestuosa – e a un sinistro servitore, finisce per ritrovarsi al centro di una serie di atroci omicidi; dietro alla quale si cela anche la vera origine delle sue turbe mentali.
Dotato soprattutto di falle narrative e grossolane approssimazioni psicologiche, lo script a sei mani – coinvolti il regista Freda, Antonio Cesare Corti (Incubo sulla città contaminata, 1981 di Umberto Lenzi) e Fabio Piccioni (Le ombre roventi, 1970 di Mario Caiano) – fatica a prendere una direzione convincente e fluida, arenandosi sulle secche degli infiniti luoghi comuni – dai soliti “red herrings” ai telefonatissimi “bus” – dei suoi numerosi difetti – non ultimi i dialoghi del produttore Mizrahi (addetto stampa in diverse produzioni francesi e italiane come L’ingorgo, 1979 di Luigi Comencini o Scemo di guerra, 1985 di Dino Risi). A condannare, però, definitivamente la pellicola, e dispiace sottolinearlo, è la mancata regia di un grande personaggio del cinema italico – se non a livello generale, quanto meno nell’ambito del cinema di genere – ovvero quel Riccardo Freda autore di alcuni splendidi “gotici” (Lo spettro, 1963) e di pregevoli avventurosi (Agi Murad, il diavolo bianco, 1959). Qui sembra voler sottomettere gli stilemi del giallo argentiano e gli eccessi dello “splatter” – generi, per sua stessa ammissione, fuori dalle sue corde – al suo stile raffinato e decadente, fatto di atmosfere e suggestioni, ottenendo però un frullato mal coagulato, in cui nessuno degli ingredienti si amalgama con l’altro e finisce, anzi per sottolineare vicendevolmente i difetti; e così, tanto inutile e incomprensibile appare il furore grandguignolesco della parte conclusiva, quanto pesante, tediosa e inconcludente risultano le parti antecedenti. Un cast composto da nomi di buon “culto” – da Stefano Patrizi (Cassandra Crossing, 1976 di George Pan Cosmatos) a Martine Brochard (Gatti rossi in un labirinto di vetro, 1975 di Umberto Lenzi), da John Richardson (La maschera del Demonio, 1960 di Mario Bava) a Anita Strindberg (Chi l’ha vista morire?, 1972 di Aldo Lado) sembra adeguarsi alla sciatteria generale, offrendo una serie di prove scarsamente incisive, in cui emerge soprattutto l’eccessività di Silvia Dionisio (il wharoliano Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!!, 1974 di Antonio Margheriti e Paul Morrissey), nei panni di una “milf” ricca e annoiata, oltre che alquanto perversa. A salvarsi è soprattutto la bella e sempre puntuale Laurette Gemser, balzata alla fama con il personaggio di Emanuelle nei film eponimi di Joe D’Amato/Aristide Massacesi, con una prova controllata e, al solito, ricca di fascino. Deludente come “gotico” e deludente come “splatter”, è un titolo che si vorrebbe istantaneamente dimenticare.
Dotato soprattutto di falle narrative e grossolane approssimazioni psicologiche, lo script a sei mani – coinvolti il regista Freda, Antonio Cesare Corti (Incubo sulla città contaminata, 1981 di Umberto Lenzi) e Fabio Piccioni (Le ombre roventi, 1970 di Mario Caiano) – fatica a prendere una direzione convincente e fluida, arenandosi sulle secche degli infiniti luoghi comuni – dai soliti “red herrings” ai telefonatissimi “bus” – dei suoi numerosi difetti – non ultimi i dialoghi del produttore Mizrahi (addetto stampa in diverse produzioni francesi e italiane come L’ingorgo, 1979 di Luigi Comencini o Scemo di guerra, 1985 di Dino Risi). A condannare, però, definitivamente la pellicola, e dispiace sottolinearlo, è la mancata regia di un grande personaggio del cinema italico – se non a livello generale, quanto meno nell’ambito del cinema di genere – ovvero quel Riccardo Freda autore di alcuni splendidi “gotici” (Lo spettro, 1963) e di pregevoli avventurosi (Agi Murad, il diavolo bianco, 1959). Qui sembra voler sottomettere gli stilemi del giallo argentiano e gli eccessi dello “splatter” – generi, per sua stessa ammissione, fuori dalle sue corde – al suo stile raffinato e decadente, fatto di atmosfere e suggestioni, ottenendo però un frullato mal coagulato, in cui nessuno degli ingredienti si amalgama con l’altro e finisce, anzi per sottolineare vicendevolmente i difetti; e così, tanto inutile e incomprensibile appare il furore grandguignolesco della parte conclusiva, quanto pesante, tediosa e inconcludente risultano le parti antecedenti. Un cast composto da nomi di buon “culto” – da Stefano Patrizi (Cassandra Crossing, 1976 di George Pan Cosmatos) a Martine Brochard (Gatti rossi in un labirinto di vetro, 1975 di Umberto Lenzi), da John Richardson (La maschera del Demonio, 1960 di Mario Bava) a Anita Strindberg (Chi l’ha vista morire?, 1972 di Aldo Lado) sembra adeguarsi alla sciatteria generale, offrendo una serie di prove scarsamente incisive, in cui emerge soprattutto l’eccessività di Silvia Dionisio (il wharoliano Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!!, 1974 di Antonio Margheriti e Paul Morrissey), nei panni di una “milf” ricca e annoiata, oltre che alquanto perversa. A salvarsi è soprattutto la bella e sempre puntuale Laurette Gemser, balzata alla fama con il personaggio di Emanuelle nei film eponimi di Joe D’Amato/Aristide Massacesi, con una prova controllata e, al solito, ricca di fascino. Deludente come “gotico” e deludente come “splatter”, è un titolo che si vorrebbe istantaneamente dimenticare.
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