LA CASA NEL TEMPO (1989)

Regia: Lucio Fulci
Soggetto: Lucio Fulci
Sceneggiatura: Gianfranco Clerici, Daniele Stroppa
Interpreti e personaggi: Keith Van Hoven: Tony; Karina Huff: Sandra; Paolo Paoloni: Vittorio Corsini; Bettine Milne: Sara Corsini; Peter Hintz: Paul; Al Cliver: Piero; Carla Cassola: Maria; Paolo Bernardi: nipote; Francesca De Rose: nipote; Massimo Sarchielli: proprietario del negozio
Fotografia: Sebastiano Celeste
Montaggio: Alberto Moriani
Musiche: Vince Tempera
Scenografia: Elio Micheli
Costumi: Valentina Di Palma
Effetti speciali: Giuseppe Ferranti
Produttore: Renato Camarda, Renato Fiè
Produttore esecutivo: Massimo Manasse, Marco Grillo Spina
Casa di produzione: Reteitalia, Dania Film
Paese: Italia
Anno: 1989
Formato: film TV
Genere: Horror
Durata: 90 min
Lingua originale: italiano
Aspect ratio: 1,85 : 1

Sul finire degli anni 80, in un momento in cui Fulci è piuttosto cupo per colpa di malesseri fisici e a causa dell’assenza di budget decorosi, insufficienti a rendere giustizia alla sua poetica creativa, accetta la proposta dell’allora Reteitalia di girare due horror televisivi, La casa nel tempo e La dolce casa degli orrori. La serie s’intitola Le case maledette e comprende altri due horror diretti da Umberto Lenzi: La casa del sortilegio e La casa delle anime erranti. I quattro film non andranno mai in onda perché giudicati troppo violenti per il pubblico televisivo. Soltanto nei primi anni 2000 videro la luce in homevideo e furono trasmessi da alcune emittenti locali. Fu chiaramente un’altra ingiustizia nei confronti del regista, che qualcuno definì “stanco”, ma che in realtà, come testimonia un’attenta visione di questo film, manteneva lucidità e mano consapevole.
“Se il tempo ritornasse indietro ritornerebbero indietro anche i nostri peccati.” è la citazione di Balzac che, a sfondo nero, introduce al film.

Ciò che colpisce fin dai titoli di testa è l’atmosfera spettrale che avvolge la villa dove si svolge la vicenda. I titoli di testa scorrono su inquadrature grandangolari che giocano alla luce del sole con le geometrie della villa e del parco circostante, per poi concludersi in notturna, con la nebbia, sull’immagine frontale del cancello principale su cui campeggia in sovrimpressione la scritta “regia di Lucio Fulci”. E questo è naturalmente solo l’inizio. La cinepresa si avvicina a una finestra, e la buona fotografia d’impronta flou (di Nino Celeste), che si serve di chiaroscuri, lascia intendere già da un punto di vista esterno che qualcuno si sta muovendo con una torcia, di nascosto, nel labirintico buio delle stanze. E’ Maria (Carla Cassola), che si scoprirà essere la cameriera. Torcia alla mano, s’aggira guardinga e impaurita tra le stanze, diretta alla cappella. Forzato il lucchetto che ne tiene chiuso l’ingresso, il suo sospetto che nella casa ci sia qualcosa che non va trova conferma ai suoi occhi terrorizzati nel vedere due persone, un uomo e una donna, in abiti nuziali ma in avanzato stato di decomposizione, deposti su catafalchi. Richiude la porta. Questo tremendo incipit è perché a Fulci piaceva che subito, lo spettatore, fosse calato nell’atmosfera che avrebbe respirato nel film, nel “viaggio” appena iniziato. Le immagini di questo terrificante assunto sono, per contro, bilanciate dall’estrema calma della sequenza immediatamente successiva, in cui, un anziano signore, Vittorio (Paolo Paoloni), contempla compiaciuto la propria collezione di antichi orologi di valore. La scena è sapientemente gestita negli spazi con una lenta panoramica rotta solamente dal ticchettio degli orologi, dal rintocco dei pendoli e dall’amorevole voce dell’uomo che, paternamente, chiede come va ai suoi “angioletti”. Poco dopo spappolerà un candido uccellino incontrato sul davanzale della finestra per darlo in pasto al gatto. Compare Sara (Bettine Milne), la moglie, che lo rimprovera simpaticamente di viziare troppo l’animale, e di non sopportare di avere la casa piena di piume. E’ mattina ed è ora di colazione nell’elegante aristocratica villa, ma la cameriera, turbata dal macabro rinvenimento notturno, tradisce il proprio nervosismo rompendo una tazzina, e annunciando con una scusa le proprie dimissioni. Fuori, nel parco, il giardiniere (Al Cliver), un inquietante tipo privo di un occhio, sta già scavando la fossa che la ospiterà. La povera Maria sarà infilzata a morte nel ventre, da parte a parte, dall’anziana padrona di casa, che abbandona il cadavere intonando candidamente la melodia di Singing in the rain, citazione che il regista fa di Arancia meccanica. Questi sono Vittorio e Sara, i candidi coniugi Corsini, folli assassini. I cadaveri nella cappella sono dei loro nipoti, anch’essi eliminati dalla coppia, perché “sono stati molto cattivi”.
L’orrore, per Fulci, ha qui origine all’interno del nucleo famigliare, all’interno delle mura domestiche, dove dietro l’apparente tranquillità e perbenismo si possono celare le più allucinanti follie. Quasi grottesche e volutamente caricaturali i tratti con cui sono descritti i due anziani, delicati nei modi di fare ma nascostamente belve sanguinarie.
Una coppia di giovani fidanzati (Karina Huff e Keith Van Hoven) vaga insieme a un amico (Peter Hintz, lo stesso anno protagonista dell’altro horror Bloody Psycho) a bordo di un’auto rubata per le campagne circostanti la villa. Sono dei poco di buono, fumano spinelli, le loro conversazioni sono un fiume di parolacce, fanno una sosta per rapinare un supermercato e, nuovamente in viaggio, trovato un gatto all’interno dell’auto, si divertono a soffocarlo infilandolo in un sacchetto. Stanno cercando proprio la villa dei Corsini. Sanno che se riusciranno a penetrarvi potranno mettere le mani su un ricco bottino. Attraverso un escamotage riescono a penetrare nella villa: la ragazza, fingendosi sola e con un guasto alla macchina, si fa aprire per telefonare a un inesistente amico. I due complici nel frattempo fanno il loro ingresso attraverso una finestra lasciata aperta, e provocano un massacro. Il giardiniere, armato di fucile, tenta di difendere i Corsini, ma nella collutazione rimane ucciso insieme agli anziani abitanti. Nel preciso istante in cui muore Vittorio, tutti gli orologi della villa si fermano, per poi riprendere il loro funzionamento poco più tardi, ma a ritroso nel tempo. Bloccati dai feroci cani da guardia sguinzagliati per il parco, i tre malviventi sono costretti a passare la notte nella villa. A poco a poco, l’anomalo scorrere delle lancette degli orologi, immerge il microcosmo della casa in un viaggio nel passato. Chiunque vi si trovi all’interno, sia i vivi che i morti, ne subirà le conseguenze: i morti tornano in vita a perseguitare i vivi, reclamando vendetta. Non tornano solo gli anziani abitanti col fido giardiniere a perseguitare i ladri, ma anche i nipoti nascosti in cappella e la cameriera sepolta in giardino iniziano uno spietato errare, ognuno in cerca della propria giustizia personale. Davanti agli occhi increduli dei banditi, impossibilitati a fuggire, e che angosciati iniziano a sospettare di star vivendo in un incubo, ha origine una serie di allucinanti avvenimenti. I sapienti vari passaggi di sceneggiatura ne svelano passo a passo le tragiche conseguenze, in un crescendo di tensione, iniziando dall’evidenziare dettagli in un primo momento quasi insignificanti e a mano a mano sempre più terribili: un accendino scomparso si materializza nella tasca di chi l’aveva perduto, la tavola della cena ritorna ordinatamente apparecchiata, le macchie di sangue scompaiono, inquietanti ombre e passi iniziano a manifestarsi per le scale e i bui corridoi dell’abitazione, fino alla spaventosa ricomparsa dei redivivi.
La situazione ora è ribaltata. Gli aggressori sono aggrediti, e lo spettatore è disorientato, quasi incapace se patteggiare per gli uni o per gli altri, secondo la cinica impronta che ha caratterizzato molte pellicole del regista, in base alla quale ognuno ha colpe da espiare, ognuno è portatore, in un modo o nell’altro, di negatività.
Nel finale, amaro, ritorna il gatto che i tre malcapitati delinquenti volevano soffocare all’inizio del film; un gatto nero, a testimonianza di un altro dei temi cari a Fulci, la superstizione. Un interrogativo passa per la mente dello spettatore: e se tutto ciò fosse colpa sua? L’ultimissima inquadratura, in cui, anche se non in primo piano, compare il corpo del piccolo animale morto, è emblematica. Ma altri dubbi vengono posti in chiusura: quanto realmente il tempo è tornato indietro?, e se fosse stato tutto solo un incubo? E l’incubo, è realmente concluso?
Un Lucio Fulci che scardina le impostazioni televisive, e sfogando la sua propria forza espressiva confeziona un horror ispirato, riuscito e violento, sia nell’estetica che nei contenuti, del tutto personali; una regia che muove brillantemente la cinepresa riuscendo a immergere la campagna del centro Italia in un lugubre incubo. Un film malsano, in cui nessuno si salva, che trasuda amari destini e che non offre scampo. Il soggetto è dello stesso regista, mentre la sceneggiatura è scritta da Gianfranco Clerici, già al fianco di Fulci per Non si sevizia un paperino, Lo squartatore di New York e Murderock, e Daniele Stroppa, che in seguito collaborerà a Voci dal profondo.
La colonna sonora è nelle mani di Vince Tempera, già con Fulci per l’altro horror della serie, La dolce casa degli orrori, ma anche in passato con I quattro dell’apocalisse, Il cav. Costante nicosia demoniaco…, Sette note in nero e Sella d’argento. Una buona squadra per un buon film lasciato troppo tempo nell’ignoto.

Recensione a cura di:




Commenti