Regia/Director: Alfonso Brescia
Soggetto/Subject: Ciro Ippolito
Sceneggiatura/Screenplay: Ciro Ippolito, Piero Regnoli, Alfonso Brescia
Interpreti/Actors: Mario Merola (don Salvatore Savastano), Aldo Canti [Nick Jordan] (Antonio Lo Santo), Ria De Simone (Marilì), Nunzio Gallo (commissario di polizia), Lucio Montanaro, Lucio Crocetti, Nino Vingelli, Alex Partexano [Alessandro Partexano], Leopoldo Mastelloni ("Tigre di Forcella", travestito), Lucia Cassini (se stessa), Marco Girondino (Gennarino), Letizia D'Adderio (Stefanella), Salvatore Puccinelli, Massimiliano Spinelli, Bruno Romagnoli, Gianfranca Dionisi, Giovanna Conti
Fotografia/Photography: Silvio Fraschetti
Musica/Music: Edoardo Alfieri
Costumi/Costume Design: Valeria Valenza
Scene/Scene Design: Enzo Medusa
Montaggio/Editing: Carlo Broglio
Suono/Sound: Sandro Occhetti
Produzione/Production: G.P.S.
Distribuzione/Distribution: Impegno Cinematografico
censura: 72793 del 07-12-1978
“I mandolini suonano e le pistole cantano”, uno slogan inequivocabile, un manifesto programmatico della creatività italiana sempre pronta ad esplodere per innervare tramonti e corde spezzate del cinema di genere.
Sul finire degli anni Settanta il poliziottesco italiano mostra gravi segni di crisi e decide di sposare la poetica della cine-sceneggiata napoletana, eleggendo a simbolo supremo il leggendario cantante Mario Merola, che aveva esordito nel 1973 con il pionieristico Sgarro alla camorra di Ettore Maria Fizzarotti, il re dei “musicarelli”.
Dopo Onore e guapparia (1977) di Tiziano Longo, con Pino Mauro, il primo chiaro esperimento di ibridazione, sarà l’eminenza grigia Ciro Ippolito, rampante produttore, a intuire le potenzialità del genere, richiamare Merola e affidare la confezione a un regista mai banale e sottovalutato: il grande Alfonso Brescia. Il successo su scala nazionale del primo film della premiata ditta L’ultimo guappo (1978) fissa le prime coordinate. Con il successivo Napoli … serenata calibro 9 però il processo appare più compiuto, a partire dall’apporto musicale. Se una sceneggiata che si rispetti non può non comprendere la “canzuncella”, è anche vero che qui si assiste a una sorta di autosabotaggio di certi codici espressivi. Don Salvatore Savastano (Merola) festeggia la prima comunione del figlio con amici e parenti vari ed è invitato a cantare dagli entusiasti commensali. Mentre scorrono le note della title-track, in montaggio alternato assistiamo all’irruzione di alcune “belve col mitra” che rovineranno la festa e, in maniera “sacrilega”, interromperanno il canto. Finirà in tragedia, con la moglie e il figlio del Don uccisi dai rapinatori, impegnati anche in una sincronizzata e acrobatica operazione di fuga. Il plot fagocita il sottofilone dei “giustizieri” esploso qualche anno prima dopo il successo della serie con Charles Bronson (esempio italiano: L’uomo della strada fa giustizia, 1975, di Umberto Lenzi) e innesca il desiderio di vendetta di Don Salvatore che non si arresterà di fronte agli ammonimenti di un umano commissario (Nunzio Gallo), circondato da collaboratori deficienti (pretesto per gli inserti comici di Lucio Montanaro, altro immancabile elemento del genere). Con la polizia assente o ridicola (Brescia ci mostra un commissariato-teatro, popolato da travestiti e prostitute festanti), sarà il piccolo Gennarino (Marco Girondino), l’immancabile scugnizzo, ad aiutare Don Salvatore, in una conferma territoriale che attesta una sorta di sostituzione filiale. Sarà proprio il ragazzino il deus-ex-machina della vicenda, svelando a Don Salvatore un’ossessione visiva che si dipana in una specie di flashback leoniano, ma che sembra anche uscita dalla gamma dei “particolari rivelatori” dei gialli di Argento (uno dei rapinatori esce di scena con una spettacolare capriola); poi, quando Savastano sarà catturato, ancora una volta Gennarino lo salverà da morte certa.
Dopo Onore e guapparia (1977) di Tiziano Longo, con Pino Mauro, il primo chiaro esperimento di ibridazione, sarà l’eminenza grigia Ciro Ippolito, rampante produttore, a intuire le potenzialità del genere, richiamare Merola e affidare la confezione a un regista mai banale e sottovalutato: il grande Alfonso Brescia. Il successo su scala nazionale del primo film della premiata ditta L’ultimo guappo (1978) fissa le prime coordinate. Con il successivo Napoli … serenata calibro 9 però il processo appare più compiuto, a partire dall’apporto musicale. Se una sceneggiata che si rispetti non può non comprendere la “canzuncella”, è anche vero che qui si assiste a una sorta di autosabotaggio di certi codici espressivi. Don Salvatore Savastano (Merola) festeggia la prima comunione del figlio con amici e parenti vari ed è invitato a cantare dagli entusiasti commensali. Mentre scorrono le note della title-track, in montaggio alternato assistiamo all’irruzione di alcune “belve col mitra” che rovineranno la festa e, in maniera “sacrilega”, interromperanno il canto. Finirà in tragedia, con la moglie e il figlio del Don uccisi dai rapinatori, impegnati anche in una sincronizzata e acrobatica operazione di fuga. Il plot fagocita il sottofilone dei “giustizieri” esploso qualche anno prima dopo il successo della serie con Charles Bronson (esempio italiano: L’uomo della strada fa giustizia, 1975, di Umberto Lenzi) e innesca il desiderio di vendetta di Don Salvatore che non si arresterà di fronte agli ammonimenti di un umano commissario (Nunzio Gallo), circondato da collaboratori deficienti (pretesto per gli inserti comici di Lucio Montanaro, altro immancabile elemento del genere). Con la polizia assente o ridicola (Brescia ci mostra un commissariato-teatro, popolato da travestiti e prostitute festanti), sarà il piccolo Gennarino (Marco Girondino), l’immancabile scugnizzo, ad aiutare Don Salvatore, in una conferma territoriale che attesta una sorta di sostituzione filiale. Sarà proprio il ragazzino il deus-ex-machina della vicenda, svelando a Don Salvatore un’ossessione visiva che si dipana in una specie di flashback leoniano, ma che sembra anche uscita dalla gamma dei “particolari rivelatori” dei gialli di Argento (uno dei rapinatori esce di scena con una spettacolare capriola); poi, quando Savastano sarà catturato, ancora una volta Gennarino lo salverà da morte certa.
E si arriva così al climax finale, con una delle sequenze memorabili nell’apoteosi del linguaggio poliziottesco: Merola fa irruzione nel covo dei nemici, una sorta di moderno “saloon”, entrambe le mani dotate di pistola come in un film di Hong Kong, per una terribile vendetta addirittura condotta dalla seconda parte della canzone, che trasforma il testo romantico delle prime strofe in un trattato a sentenza di morte. È una soluzione altamente spettacolare e tenera allo stesso momento, per via di una fagocitazione metacinematografica dagli effetti bonariamente esilaranti. Tale coda esplosiva era già stata ampiamente annunciata da ardite soluzioni tecniche condotte dal regista, tramite eccitanti slow-motion che sembrano usciti da un western di Leone (e da Peckinpah) e a un adrenalinico utilizzo della musica. Una menzione speciale va infatti ai pazzeschi ibridi sonori, nella piena ottica “cinecannibalica” del genere, ideati dal maestro Eduardo Alfieri, il quale concilia in maniera eccitante le nuove sonorità disco con l’elettronica-funky propria del genere e non dimenticando l’apporto della tradizionale strumentazione partenopea (l’utilizzo del mandolino è emblematico in questo senso). E’ l’inizio di una prolifica collaborazione tra il corpulento cantante e l’altrettanto imponente regista romano, che darà vita a ben 12 pellicole girate tra il 1978 e il 1982, in quella irripetibile stagione del “western metropolitano partenopeo”, come lo ha definito il lungimirante Ciro Ippolito.
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Fabio Patanè