IN MEMORIA DI UN MAESTRO (Mario Bava. Sanremo, 31 luglio 1914 – Roma, 26 aprile 1980) di Roberto Poppi

Mario Bava su Mario Bava:

 A vent'anni mi sposai e mi misi a fare i titoli di testa per conto mio […] c'erano tutte le case americane che davano il titolo americano e lo volevano uguale scritto in italiano. […] Poi con le sanzioni le case americane chiusero con l'Italia e rimasero solo quelle italiane […] Penso che la Minerva Film andò a fuoco per gli accidenti che gli ho mandato io. Gli avevo fatto “Scipione l'Africano” in tutte le lingue e non mi hanno mai dato le 22.000 lire che mi dovevano. Mi hanno rovinato il viaggio di nozze

“Caltiki il mostro immortale” di Riccardo Freda, era un mostro fantascientifico che io feci di trippa. Di trippa per i gatti. Anzi, siccome il tecnico che tutti i giorni doveva comprare un quintale di trippa s'era messo in testa di risparmiare, usava sempre la solita. Dopo tre giorni quella trippa uccideva con il suo puzzo.

Sono sicuro di aver fatto solo grandi stronzate. Sono un artigiano. Un artigiano romantico, di quelli scomparsi. Ho fatto il cinema come fare le seggiole. Anzi, l'ho fatto per una doppia sfida. Contro gli americani, per esempio. Loro con le superproduzioni e io col mio geniaccio alla cazzo di cane.


Gli americani spendono miliardi per dei trucchi o delle costruzioni che poi gli escono pure male. Io per “Gli invasori” ho fatto una battaglia navale con due tavole modellate a forma di prua di nave, il tutto poggiato su delle scatole di sapone […] Per “Operazione paura” impazzirono a vedere gli effetti. Per loro chissà cosa era osservare un teschio che si incarnava. Io ci mettevo due minuti a fargli spuntare gli occhi. Roba da bambini. Solo che ci voleva invenzione.

Io il regista non lo volevo fare, perché secondo me il regista deve essere veramente un genio e poi stavo tanto bene a fare l'operatore, guadagnavo un sacco di soldi. Ormai avevo imparato tutti i trucchi del mestiere.

Qualcuno mi chiese: come spiega che gli americani e i francesi hanno apprezzato i suoi film più degli italiani? Gli risposi: perché sono più fessi di noi.

Hanno detto di lui...

Ho lavorato diverse volte con Mario Bava. Era sempre di buon umore e il suo carattere si accordava perfettamente al mio. Dotato di una capacità tecnica straordinaria, si divertiva ad affrontare e risolvere i problemi più ardui. […] In questo dannato Paese ben pochi si sono accorti di Bava. E non potrebbe essere altrimenti! (Riccardo Freda, regista)

Bava era un personaggio divino! (Laura Betti, attrice)

Bava era un genio. Un genio che ebbe il torto di nascere in Italia. […] Era di una bravura indicibile dal punto di vista tecnico, capace di qualunque cosa. La cosa meravigliosa di Bava, la cosa che davvero ti faceva restare a bocca aperta, è che faceva dei trucchi incredibili costruiti con le sue mani, servendosi della carta stagnola, di pezzetti di cartone, di plastica. […] Tanto è vero che quando girava mi diceva: “Bruno, non fare entrare in teatro gli americani, se no ci sputtaniamo!” (Bruno Todini, produttore)

Un tempo c'erano Bava e Freda, che erano grandissimi e che io rispetto tantissimo, quelli che hanno insegnato a tutti e anche agli americani molte cose. Bava, Freda e basta. L'horror italiano deve tutto a loro. Il mio modello sono stati loro […] (Lucio Fulci, regista)

Impresa ardua, oggi, scrivere qualcosa che ancora non sia stata già scritta su Mario Bava. In tempi di colta cinefilia (a volte anche esasperata) tutto può apparire come un ripetersi di frasi già pronunciate, di sentenze giunte alla cassazione della verità. Forse era più facile quarant'anni fa, tempo di pionieri   incompresi e osservati con sospetto e poco malcelato disprezzo, quando per avere un' informazione che fosse una su un regista definito mestierante e/o non artista, era impresa quasi simile ad una scalata a mani e piedi nudi del K2. Conquiste derise. Quando Bava morì quel maledetto 26 aprile 1980, a neppure 66 anni i giornali cercarono, con ben poco entusiasmo, lo spazio per un trafiletto fra l'oroscopo e le previsioni del tempo. Ricordo una trentina di righe sulla Rivista del Cinematografo, quando era una cosa seria perché c'erano Bernardini e Chiti che, se non altro, avevano il coraggio di far nomi che non fossero i soliti noti. Mario è figlio di Eugenio Bava (1886-1966) e non è cosa di poco conto. Eugenio è un pioniere del nostro cinema, uno di quei meravigliosi innamorati dell' “invenzione inutile senza futuro” (cit. Auguste e Louis Lumière) fin dal 1904. Nel 1919 si trasferisce a Roma dove intraprende l'attività di regista e produttore. Con la crisi del cinema trova lavoro nel neonato Istituto Luce e in seguito si dedica ai “trucchi”. Il giovanissimo Mario è lì con lui. Lo aiuta e intanto impara l'arte che mette da parte. La rispolvererà da grande, divenendone un maestro impareggiabile. I primi passi di Bava jr nel cinema sono abbastanza “umili”. Si dedica alla trascrizione dei titoli (soprattutto di film americani) traducendoli e portandoli su pellicola. Ben presto, dopo qualche esperienza come assistente di Massimo Terzano, comincia a lavorare come direttore della fotografia, quello che per vent'anni sarà il suo lavoro.  Comincia nientemeno che con Rossellini (i cortometraggi Il tacchino prepotente e La vispa Teresa) entrambi del 1939. Rossellini è un regista che non ama molto. Anni dopo affermerà che “rubò tutto a De Robertis, un vero genio, il vero inventore del neorealismo”. I documentari sono per Mario occasione per sperimentare la “luce”, prima col bianco e nero e poi col colore. I registi, a parte pochi che hanno già un nome (Francisci, Emmer) non sono molto conosciuti e non condizionano il lavoro del pur giovane operatore. Nel 1942 esordisce come direttore della fotografia anche di lungometraggi e sarà un cammino verso la gloria. I titoli non si contano, ma quasi sempre sono di prestigio. La svolta nella carriera di Bava è datata 1956, l'anno di I vampiri opera di un altro genio, Riccardo Freda, che inventa l'horror gotico. Il Nostro cura e dirige le sequenze con effetti speciali, esperienza che ripete anche con Le fatiche di Ercole (P. Francisci), Ercole e la regina di Lidia (P. Francisci), La morte viene dallo spazio (P. Heusch), Caltiki il mostro immortale (R. Freda) e Esther e il re (R. Walsh).
Nel 1960, finalmente, il primo film da regista: La maschera del demonio. Ed è subito capolavoro. 
Ripercorrere la carriera registica di Mario Bava è affascinante. Come sfogliare un bellissimo libro illustrato da meravigliose fotografie. I titoli, ormai, non serve neppure più citarli. Chi mastica anche soltanto un po' di cinema li conosce a memoria. Capolavori (mai termine è così appropriato) finiti su tutte le storie del cinema, non solo italiane. Da La ragazza che sapeva troppo fino a Cani arrabbiati (forse il suo film più ispirato e coraggioso) è un crescendo quasi musicale di emozioni intense che si ripetono ad ogni visione. Film senza tempo. Maestro dell'horror, del thriller e del giallo, Mario Bava si cimenta anche con altri generi: il fantastico, l'avventuroso, il peplum, la fantascienza, il western e, da non crederci, il comico francocicciesco. Le sue performances come creatore di effetti speciali sono ormai entrate a far parte del mito. Altro che computer grafica. Nessuno mai più come lui. 
Grazie di tutto, Mario. Tu oggi non hai cento anni. Sei, per noi, ancora il ragazzo di bottega che imparava da tuo padre l'arte di arrangiarsi e che poi ci hai regalato sogni fatti con la carta del pane e la stagnola stropicciata. Sei il cinema.

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Commenti

andrea corbetta ha detto…
Per me è un vero punto di riferimento. Da quando lo ho scoperto una ventina di anni fa, non lo ho mai più abbandonato. Peccato non aver avuto l'occasione di conoscerlo... Le poche volte che ho lavorato per piccole produzioni cinematografiche, dovendo costruire interni di astronavi o lo studio ovale della Casa Bianca, ho sempre cercato, nel mio piccolo, di fare come lui... arrangiarmi con il poco/quasi nulla! Grazie Mario che da lassú continui a darci la giusta direzione.
Roberto Zanni ha detto…
Sicuramente ha dimostrato che se si ha capacità e fantasia, si riesce a volte a sopperire alla carenza di budget, come spesso a lui capitava