Regia/Director: Lucio Fulci
Soggetto/Subject: Dardano Sacchetti
Sceneggiatura/Screenplay: Dardano Sacchetti, Lucio Fulci, Giorgio Mariuzzo
Interpreti/Actors: Catriona McColl [Katherine MacColl] (Liza Merrill), David Warbeck (John McCabe), Sarah Keller (Emily), Antoine Saint-John, Veronica Lazar, Anthony Flees, Pier Luigi Conti [Al Cliver], Giovanni De Nava, Michele Mirabella, Giampaolo Saccarola, Maria Pia Marsala, Laura De Marchi
Fotografia/Photography: Sergio Salviati
Musica/Music: Fabio Frizzi
Costumi/Costume Design: Massimo Lentini
Scene/Scene Design: Massimo Lentini
Montaggio/Editing: Vincenzo Tomassi
Suono/Sound: Ugo Celani
Produzione/Production: Fulvia Film
Distribuzione/Distribution: Medusa Distribuzione
censura: 76406 del 23-03-1981
Altri titoli: L'aldilà, L'au-delà, The Beyond, Über dem Jenseits, And You'll Live in Terror, The Beyond, Seven Doors of Death, El mas alla
“… e tu vivrai nel terrore!
L’Aldilà”: una frase d’impatto e un sostantivo evocativo che già sono
programmatici e ci introducono nell’universo delirante del secondo film con il
quale il regista romano prosegue la cosiddetta “Trilogia della morte”, un film che
si caratterizza come sospeso tra feroce, bruta e viscerale “materialità” e
atmosfere rarefatte, impalpabili e trasognate.
La trama si presenta quasi come
un “riassunto” di tanto cinema horror precedente: c’è una casa infestata, in
questo caso un fatiscente albergo da ristrutturare; un libro maledetto, il
Libro di Eibon (che fa il paio con il precedente, meno “presente” ma
altrettanto nefasto, Libro di Enoch di “Paura nella città dei morti viventi”);
e perfino gli zombi nel concitato finale (pare non troppo graditi da Fulci
stesso, ma imposti dalla produzione per sfruttare il successo di “Zombi
2”). La vita della protagonista
Liza (Catherine/Catriona MacColl, interprete principale dei tre film della
“trilogia”) viene sconvolta da una serie di macabri e sconcertanti avvenimenti
che hanno come fulcro proprio l’hotel della Louisiana da lei rilevato, teatro
in passato dell’omicidio di un pittore/stregone, giustiziato dagli abitanti.
Nel prologo virato in seppia si assiste all’esecuzione di Schweik, il pittore dedito
a misteriose e non del tutto precisate pratiche diaboliche e alla lettura del
libro (che poi prenderà fuoco introducendo i titoli di testa) da parte
dell’enigmatica Emily, forse il personaggio più ambiguo e sfuggente dell’intera
vicenda. Curiosamente, tale prologo (estremamente ben girato, con l’arrivo
silenzioso dei contadini sulle barche che poi sfocia in un’esplosione di
inaudita violenza) venne tolto da alcune versioni del film (rendendo ancora più
difficile la comprensione del ruolo dei personaggi citati) e ne venne editata
anche una versione a colori. Se la versione in seppia colpisce per originalità,
suggestione e gusto retrò funzionale alla narrazione, quella a colori dà modo
ancor di più di collegare idealmente il film con le tematiche di un altro
capolavoro di genere affine quale “La casa dalle finestre che ridono”: l’arte
come riflessione sulla morte e sulla caducità delle cose materiali (il dipinto
di Schweik che si materializzerà nel finale), i colori del pittore assimilati
al sangue ed ai fluidi vitali nell’impressionante scena in cui lo stesso Autore
del quadro, massacrato da colpi di catena e cosparso di calce viva, viene
trasformato egli stesso in una macabra Opera D’Arte, tra profluvi colorati e
cangianti. Il susseguirsi degli avvenimenti, che arriveranno anche a
coinvolgere fatalmente il medico condotto John (David Warbeck), il cui destino,
quasi per contagio, si legherà indissolubilmente a quello di Liza, sono
caratterizzati dall’anarchia totale e da un caos infernale che non arretra di
fronte alle incongruenze: ne sono un esempio la sequenza della ragazzina, Jill,
nell’obitorio dove, dopo una prima parte che inquieta per macabro realismo (la
visione, con annesso rumore cigolante, dei lettini che trasportano i cadaveri;
la vestizione del defunto), assistiamo ad una delirante scena in cui una
bottiglia di acido si riversa, senza apparente motivo, sul volto della madre di
Jill e le scioglie orrendamente il volto. Altrettanto spiazzante è la scena in
cui, dopo essere precipitato da una scala a pioli, l’amico architetto di Liza
(un inedito Michele Mirabella, presenza piuttosto curiosa) viene attaccato da
alcuni ragni che lo straziano orribilmente, infierendo anche su lingua e bulbi
oculari. L’accanirsi sull’occhio e in certi casi la sua estirpazione è una
caratteristica delle esecuzioni fulciane: rappresenta la perdita di se stessi,
della propria razionalità e del contatto con il mondo reale e
contemporaneamente il radicale ed estremo allontanamento, quasi purificatore,
da tutti gli orrori che vediamo, ai quali quotidianamente assistiamo. Nel film
ne sono vittime anche l’idraulico Joe e la domestica Martha, figure ambigue che
insospettiscono non poco lo spettatore apparendo in un primo momento quasi come
complici delle entità maligne e i cui sibillini giochi di sguardi anticipano
quelli altrettanto misteriosi tra Paolo Malco e Ania Pieroni in “Quella villa
accanto al cimitero”. Nonostante questo il caos mortifero che domina “L’Aldilà”
non li risparmierà, così come non verrà concessa salvezza nemmeno alla
ragazzina del film che, trasformata in zombi (o meglio, rimasta sospesa in un
limbo tra la vita e la morte testimoniato dalla pupille divenute bianche) verrà
“finita” con un colpo di pistola da John. Tra i personaggi spicca
particolarmente la “cieca” Emily (anche lei, come Jill, e ben prima,
appartenente ad un mondo che non è né quello dei vivi né quello dei morti), la
cui comparsa davanti a Liza avviene con una ripresa molto suggestiva, che ce la
fa incontrare, simile ad una versione bionda della Barbara Steele di “La
maschera del demonio” (e come lei dapprima silenziosa e accompagnata anch’essa
da un cane), non tra antiche rovine, bensì alla fine di un lungo e moderno
ponte. La sua essenza fantasmatica è colta mirabilmente dalla scena in cui
la MacColl rievoca la sua
fuga e la sua scomparsa oltre la porta dell’albergo nella nebbia, rendendosi
conto che i suoi passi concitati non hanno prodotto alcun rumore, scena resa
ancora più efficace dall’uso del rallentatore. Al contrario, la parte “umana” e
ciò che resta ancora legato alla materialità di Emily viene enfatizzata dalla
sua vulnerabilità nella sequenza della sua morte ad opera del proprio
cane-guida, ricca di particolari quasi “chirurgici”; sequenza debitrice del
“Suspiria” di Dario Argento, contraddistinta dalla medesima, snervante attesa
della vittima conclusa con l’attacco improvviso e inaspettato del cane, qui
però in un contesto assolutamente claustrofobico (l’appartamento con pesanti
tendaggi e gli zombi in agguato che la circondano, contraddistinto dall’ottima
fotografia di Sergio Salvati), mentre l’analoga scena del film del ’77 vedeva
Flavio Bucci “assediato” in una situazione all’opposto agorafobica nella vasta
piazza di Monaco di Baviera. Il film di Fulci si conclude, dopo una sparatoria
dal sapore quasi western tra gli zombi in un ospedale, memore di “Zombi
2”, con il ritorno al luogo da
dove si era partiti (l’Hotel delle Sette Porte). Dopo il “vivere nel terrore”,
“L’Aldilà”… dopo le grida, i sussurri: quelli che accompagnano lo scorrere
delle acque putride, quasi quelle di un fiume infernale, negli scantinati
dell’albergo e che pronunciano il nome dei protagonisti accompagnati dalle
solenni note di Fabio Frizzi… ma anche, prima dello scorrere dei titoli di
coda, quelli che permeano il quadro di Schweik che si è materializzato (anche
se il termine appare poco adatto) in un paesaggio a metà tra il lunare e il
desertico, nebbioso e “abitato” da persone/fantasmi dalle pupille bianche…
perse nel tempo, nello spazio e nel significato come recitava uno dei brani
finali del “The Rocky Horror Picture Show”. Questo film è invece è il
personalissimo “Lucio Fulci Horror Show”… prendere o lasciare. O accettare di
perdersi con lo spettatore “nel mare delle tenebre e ciò che in esso vi è di
(in)esplorabile”.
Recensione a cura di:
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