LADRI DI BICICLETTE (1948)

regista: Vittorio De Sica
soggetto: Cesare Zavattini, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Luigi Bartolini
sceneggiatura: Cesare Zavattini, Suso Cecchi D'Amico, Vittorio De Sica (accreditati anche Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri)
direttore della fotografia: Carlo Montuori
musiche: Alessandro Cicognini dirette da Willy Ferrero (canzone di Giuseppe Cioffi)
montaggio: Eraldo Da Roma [Eraldo Judiconi]
produzione: Produzioni De Sica
scenografie e arredamento: Antonio Alessandro Traverso
direttore di produzione: Umberto Scarpelli
aiuto regista: Luisa Alessandri
assistente regista: Gerardo Guerrieri
ass. regista volontario: Sergio Leone
ispettore di produzione: Nino Misiano
segretario di produzione: Roberto Moretti
operatore m.d.p. Mario Montuori
assistente operatore: Carlo Di Palma (n.a.)
fonico: Bruno Brunacci, Biagio Fiorelli
interpreti: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Stajola (il piccolo Bruno, suo figlio), Lianella Carrell (Maria, moglie di Antonio), Elena Altieri (la patronessa), Gino Saltamerenda (Baiocco), Vittorio Antonucci (il ladro), Giulio Chiari (un attacchino), Michele Sakara (il segretario alla festa di beneficenza), Fausto Guerzoni (un filodrammatico), Carlo Jachino (un mendicante), Massimo Randisi (il ragazzetto borghese in trattoria), Ida Bracci Dorati (la "santona"), Peppino Spadaro (il brigadiere), Memmo Carotenuto, Giulio Battiferri (cittadini che difendono il ladro), Checco Rissone (il vigile in Piazza Vittorio), Mario Meniconi (Meniconi, lo spazzino), Sergio Leone (un seminarista), Nando Bruno, Emma Druetti, Giovanni Corporale, Eolo Capritti, Guglielmo Spoletini.
Distribuzione: Enic. Durata: 93' 11'' (metraggio 2.561). Iscrizione al P.R.C. (Pubblico Registro Cinematografico) n. 725. Visto di censura 4.836 del 22.11.1948. Girato a Roma (esterni) e negli studi Safa-Palatino (interni). Incasso: 252.000.000 di lire. Prima proiezione pubblica: 24.11.1948 (Cinema Metropolitan di Roma). Titolo in Francia: "Le voleur de bicyclette". Titolo negli U.S.A. (e mercato anglofono): "The Bicycle Thief". Titolo in Germania: "Fahrraddiebe". Titolo in Spagna "Ladron de bicicletas". 

La durata del film, all'estero, è indicata fra i 90 e i 91 minuti. In Germania 88'. Due curiosità: Gino Saltamerenda (1902-1951), già apparso in "Sciuscià" è doppiato da Aldo Fabrizi. Un anonimo figurante che interpreta il ruolo di un venditore di biciclette a Porta Portese, ha la voce, non facilmente riconoscibile all'istante, di Alberto Sordi. Quasi impossibile elencare tutti i premi vinti dal film, che vanno dall'Academy Award (Oscar) del 1949, ai sei nastri d'argento nello stesso anno, al premio speciale della giuria al Festival di Locarno, al British Film Academy e tanti altri.
Gli sceneggiatori accreditati (Biancoli, Franci, Gherardi, Guerrieri) furono inseriti nei crediti da De Sica per una sorta di " riconoscimento amichevole" ma non parteciparono allo script.


"Ladri di biciclette" è, da sempre, considerato da tutta la critica mondiale come uno dei più grandi film italiani di ogni tempo. Alla Confrontation film di Bruxelles (1958) fu giudicato "il secondo miglior film di tutti i tempi" (il primo pare fosse "Greed" di Erich von Stroheim, ma non ho indagato più di tanto). Elencarne i premi vinti sarebbe impresa titanica, così come trascrivere stralci di recensioni apparse in ogni angolo della Terra che lo osannano senza se e senza ma. Concordo. Dal punto di vista (parziale, ne convengo) tecnico e artistico il film rasenta la perfezione. L'alchimia e l'osmosi fra scrittori, realizzatori, tecnici è perfetta. La recitazione di Maggiorani e il piccolo Stajola resta insuperabile per intensità ed aderenza ai personaggi loro affidati (merito sommo di De Sica, impareggiabile nel guidare attori anche senza alcuna esperienza, nonostante certi suoi metodi, non del tutto condivisibili, come l'escamotage per far piangere Stajola, da lui stesso - cinicamente - narrato). Il bianco e nero di Montuori è prodigioso, così come le musiche di Cicognini e il montaggio del grande Da Roma, al secolo Judiconi. Ma "Ladri di biciclette" è anche, e ancora all'unanimità, considerato come il capolavoro assoluto del neorealismo, o quantomeno uno dei due o tre più importanti. E qui, il vostro recensore (che già in passato ha sopportato stoicamente improperi e offese da ogni dove e da ogni chi, ed è pronto a sopportarne altre) dissente. "Ladri di biciclette", lo ribadisco non è un film neorealista. Se, infatti, realismo vuol dire rappresentazione della realtà, senza altre mediazioni che non siano quelle della penna (in letteratura) o della cinepresa (nel cinema), "Ladri di biciclette" non è realista, poiché non rappresenta la realtà nel suo istantaneo essere o nel suo presupposto divenire. Mi assumo ogni responsabilità, consapevole della temerarietà di simile affermazione e dell'ardua e ardita impresa di esternarla senza essere additato al pubblico ludibrio.
Intanto vediamo come andarono le cose.
Cesare Zavattini, sodale di De Sica già da molti anni e fin da quando il futuro regista era soltanto un attore di successo molto amato soprattutto dal pubblico femminile (scrisse per lui nel 1935 "Darò un milione" per la regia di Mario Camerini) legge per puro caso un romanzo senza infamia e senza lode di Luigi Bartolini. S'intitola "Ladri di biciclette". Za' (così tutti, amichevolmente, lo chiamavano) non ne è particolarmente convinto, ma percepisce spunti interessanti che, se modificati secondo il suo intendere il cinema, potrebbero adattarsi ad un "nuovo" racconto molto più articolato e soprattutto, aderente alla realtà del dopoguerra che tutti stanno drammaticamente vivendo. Ne parla con De Sica ("prendiamo titolo e spunto, il resto lo cambiamo") che, dopo l'insuccesso di "Sciuscià" (insuccesso di pubblico, soprattutto) è alla ricerca di un nuovo soggetto. De Sica è entusiasta. Convince Bartolini a cedergli i diritti e comincia a cercare finanziatori. Impresa non semplice, ma parzialmente ci riesce. Il resto lo metterà lui di tasca sua. In realtà metterebbero volentieri mano al portafoglio anche gli americani, ma alle loro condizioni, prima fra tutte che il protagonista sia Cary Grant! De Sica, che intende rappresentare la quotidianità della povera gente alla prese con avvenimenti condizionanti la loro esistenza, vuole invece gente vera, che reciti, ma reciti sé stessa. Finirà per scegliere un operaio della Breda come suo protagonista.
Cominciano le sedute di sceneggiatura. Ci sono Zavattini e Sergio Amidei, naturalmente con De Sica che però, come ognun sa, raramente mette mano alla penna, limitandosi quasi sempre a suggerimenti. Il suo lavoro è quello di star dietro la macchina da presa e dirigere attori. Sergio Amidei, padre del neorealismo - "Roma, città aperta" e "Sciuscià" - è un comunista intransigente che non accetta alcun compromesso. Quando si rende conto della piega che sta prendendo il lavoro se ne va sbattendo la porta e bestemmiando. Lo sostituirà Suso Cecchi D'Amico. Attenzione: perché è sulla presa di posizione drastica di Amidei che si basa tutto il ragionamento sul non realismo del film. Racconterà in più occasioni, che qui sintetizziamo: " Non potevo accettare di scrivere su un tale a cui rubano la bicicletta e va in giro tutto il giorno, tirandosi dietro il figlio, per cercare il ladro, quando gli sarebbe bastato andare in qualunque sede del partito e un'altra bicicletta gliela trovavano in cinque minuti. Quello era mistificare la realtà. Perché, alla fine, del libro di Bartolini non c'era rimasto solo lo spunto, ma anche tutta la storiella della caccia al ladro."
Ora, per tentar di chiarire il tutto e non cadere nella facile ragnatela dell'equivoco della monocitazione (Amidei, che comunque condivido), è necessario soffermarsi su Zavattini. Perché "Ladri di biciclette" è film soprattutto suo. Za' - lo chiamo affettuosamente così perché ho avuto a che fare con i figli Arturo e Marco, che mi commissionarono un lavoro di ricerca sul padre, inviandomi materiale inedito a chili di carta - fu uomo di multiforme ingegno. Zavattini, per i pochi che non lo sanno, nasce artisticamente come umorista, scrive sull'Marc'Aurelio, fonda il satirico Bertoldo, scrive con Achille Campanile, si dedica anche al fumetto. Satira, ironia e umorismo saranno condimento dei suoi romanzi. Ma ciò che più conta è prendere in esame la sua personalissima concezione di cinema, che va sotto l'etichetta di "teoria (o poetica) del pedinamento. Che la dice lunga e dice tutto. Pedinare (seguire nei movimenti) qualcuno per cogliere la realtà che gli sta intorno. Quindi pedinamento come pretesto. Partire dal dettaglio (uomo) per giungere al totale (ciò che lo circonda). Ma si può fare realismo con un pretesto? "Ladri di biciclette", il seguire un uomo che cerca un ladro, è un pretesto per giungere ad una realtà (verità) universale. Che però svanisce in un divenire che finisce per mutarsi (mutuarsi) in melodramma inaccettabile, col furto di altra bicicletta e le lacrime di un bambino che sicuramente stenta a capire. Realtà che sfugge. Realismo che si perde nei rumori di gente allo stadio. Ma andiamo in ordine. Approfondiamo, per quanto è possibile in una recensione. La teoria o poetica del pedimento condizionerà molto cinema e molti cineasti, a partire dal Jean Rouch e il suo cinéma véritè che a sua volta sarà traino per la nouvelle vague francese e inevitabilmente per il cinema tout-court.
Per Zavattini il neorealismo (nuovo realismo) è visto come "avvicinamento al reale", cioè come una forma e non contenuto prettamente sociale e politico. "L'evoluzione del neorealismo di Zavattini va nella direzione di un surrealismo prima favolistico (!Miracolo a Milano") poi sempre più fantastico. (...) Va, esso, in direzione degli spunti teorici del Movimento Udaista del '29 soprattutto per quanto riguarda l'aspetto formale dello stravolgimento del reale in senso non solo surreale ma addirittura metareale (l'arte intesa come potenzialità rivoluzionaria "soggettiva" nei confronti dell'oggetto rappresentato" (citazioni). Non è certo questa la sede per approfondire il pensiero di Breton a cui Zavattini molto deve.
Ma facciamo un passo indietro e guardiamo da vicino il soggetto. Ad un uomo, padre di famiglia, rubano la bicicletta che gli è strumento indispensabile per il lavoro che deve cominciare. A chi passerebbe per la mente di andarla a cercare, la bicicletta, attraversando mezza Roma (una Roma assai surreale, per restare in argomento) con la quasi certezza di fallire l'obiettivo? A chi passerebbe per la mente di rivolgersi addirittura ad una sedicente "santona/veggente"? Chiunque avrebbe optato per un'altra molto più razionale soluzione, non necessariamente quella suggerita da Amidei. In questo caso, però, "Ladri di biciclette" non sarebbe mai stato fatto, non avrebbe avuto ragion d'essere.
Perché, in ultimissima analisi, il film altro non è se non un esercizio teorico zavattiniano che De Sica asseconda pur dipingendo con maestria quadri "realisticamente" toccanti, ma del tutto estranei alla razionalità di una vicenda che avrebbe necessitato di ben altro svolgimento. Che invece finisce per essere irrazionale e non realista.

Recensione a cura di:
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Commenti

salvo salerno ha detto…
Certo, se non è "neorealismo" rimane un puro esercizio di stile, un grande affresco della Roma dell'epoca ed una storia alla Raffaele Matarazzo strappalacrime. Ma mezzo mondo, ed anche più, lo considera un "classico del neorealismo" ed anche un capolavoro (capolavoro che rimane tale in ogni caso). Ardua la strada su cui si è incamminato Roberto Poppi e, d'altra parte, questo signore, così come lo conosciamo, non poteva che regalarci questa sua tesi sul film "Ladri di biciclette", molto interessante e tanto articolata che appassiona e coinvolge come se fosse un romanzo giallo. Alla fine c'è financo il colpevole della demolizione dell'etichetta di "neorealismo" al film. Sfido che Roberto Poppi hanno scandalizzato e forse anche offeso qualche illustre critico e non solo quella categoria, ha sorpreso anche me, che del mestiere non sono,e che da questo momento in poi avrò seri dubbi sull'autenticità del marchio neorealistico al film. Non credo di potere disquisire con validi argomenti in materia, ma, mi viene solo un dubbio, poichè si tratta solo di cinema come si fa ad affermare che un film possa essere reale quando la storia trattata reale non è? penso la bicicletta e la sua ricerca sia solo una scusa per raccontare i personaggi d'epoca, i loro sentimenti, le loro paure, la loro povertà e tutto nel contesto di una realtà storica e non di una storia reale. Credo, quindi che "capolavoro neorealistico" ci stia bene a "Ladri di biciclette". Certo magari sarà perchè non ci rinuncio a crederlo tale, ma è ciò che in questo momento mi passa per la mente. Intanto Roberto Poppi mi incanta, che ci posso fare? la sua recensione, la sua dissertazione sul film ed i suoi interessantissimi aneddoti sono ascrivibili alla sua esperienza e professionalità che chi lo legge può ampiamente apprezzare. Questa recensione la considero una bella interessante storia legata al film ed una teoria accattivante e disturbante che può dare luogo a ripensamenti anche dopo più di mezzo secolo. P.S. per Roberto Poppi: Ho aspettato qualche giorno per trovare il momento giusto ed il tempo disponibile per gustarmi questa recensione perchè sentivo il dovere ed il piacere di dedicarmi alla sua lettura senza alcuna fretta. Di certo non mi ero dimenticato.