ROMA DROGATA: LA POLIZIA NON PUO' INTERVENIRE (1975)

Regia/Director: Lucio Marcaccini
Soggetto/Subject: Lucio Marcaccini, Vincenzo Mannino, José Maria Sanchez
Sceneggiatura/Screenplay: Lucio Marcaccini, Vincenzo Mannino, José Maria Sanchez
Interpreti/Actors: Bud Cort (Massimo Monaldi), Marcel Bozzuffi (commissario De Stefani), Guido Alberti (capo della polizia), Maurizio Arena (siciliano), Leopoldo Trieste (killer), Anna Rita Grapputo (Cinzia), Umberto Raho (Giovanni, cameriere), Pupo De Luca (assistente commissario), Eva Czemerys, Gian Filippo Carcano, Ennio Balbo, Mico Cundari, Rossella Or, Luca Bonicalzi, Settimo Segnatelli
Fotografia/Photography: Gino Santini
Musica/Music: Albert Verrecchia
Scene/Scene Design: Luciano Vincenti
Montaggio/Editing: Giulio Berruti
Produzione/Production: Diapason Cinematografica
Distribuzione/Distribution: Interfilm
censura: 67021 del 03-09-1975

Roma, 1975. Massimo (Bud Cort), giovane liceale, frequenta assemblee e cortei studenteschi: le proteste del ’68 erano mosse da spirito rivoluzionario, ma la loro immaturità non ha prodotto molto. Ora che si è preso coscienza delle reali necessità e strategie di combattimento la strada è spianata per l’agire. Nell’aria si respira desiderio di cambiamento, e questo è l’argomento di conversazione con gli amici. Contestano, si confrontano, si mettono in discussione, ma adagiati nel comfort dei salotti-bene dei genitori (o a Campo de’ Fiori, sotto la statua di Giordano Bruno). Inconsapevolmente spaesati, discutono di rivoluzione, finendo in realtà solo per complottare reati che li metteranno nei guai. L’idea dei combattivi è agire e restare per lottare, secondo i meditativi invece è conveniente andar via, non per fuga ma per scelta; abbandonare questa società per l’estatico contemplativo Oriente.
La fidanzata di Massimo è figlia di ricchi borghesi tutto sommato abbastanza aperti, nel momento in cui consentono alla figlia e ai suoi amici indisturbate feste in casa. Una sera però Massimo, d’accordo con la compagna, ruba un prezioso oggetto d’antiquariato della collezione del padre di lei. Il ricavato dell’impresa serve a finanziare il lungo viaggio dei loro amici.

Scatta la denuncia, e il commissario De Stefani (Marcel Bozzuffi), si mette sulle tracce dei ragazzi, iniziando a curiosare nel liceo che li accomuna. De Stefani capita durante un’assemblea. Non condanna a priori, ascolta e osserva per capire. Sente dire da Massimo:
-Tutto quello che noi impariamo su questi banchi è roba inutile, è roba che non ci servirà mai nella vita. (…) E la filosofia? Noi continuiamo a studiare la filosofia ma nessuno ci dà mai la possibilità di metterla in pratica. E la storia che impariamo non ha niente di obiettivo: è la storia che il potere vuole che noi impariamo. Noi siamo e restiamo un branco di provinciali ottusi.-
E gli risponde un insegnante: -Allora sarà per questo che lei non trae nessun profitto dall’insegnamento!-, offrendo la dimostrazione di un dialogo cieco da entrambe le parti, impossibilitato a giungere non solo a un accordo, ma nemmeno a una comprensione reciproca.
Quando De Stefani invita Massimo a seguirlo, i presenti gridano in coro -Non lo toccate! Giù le mani!-, ma è “l’arrestato” stesso ad infilarsi nell’automobile, comodamente seduto accanto al commissario, quasi a cercar protezione.
De Stefani ha organizzato un confronto. Sa che Massimo e i suoi amici frequentato il mondo della droga, e in questura gli presenta “il siciliano” (un imbolsito Maurizio Arena), invitandolo a riconoscerlo come il responsabile dello spaccio in città. Ma Massimo preferisce l’omertà. La reazione del commissario non è violenta, a differenza dello stereotipo del filone poliziesco con interrogatori a suon di ceffoni. Dirà al ragazzo: -Mi hai fatto passare per un imbecille. Adesso però mi spieghi, perché io devo capire. All’assemblea parlavi come un eroe, parlavi di libertà e dignità dell’uomo. E adesso proteggi un delinquente che si arricchisce con il traffico di droga.-
-Lei che cerca tanto di capire, ha cercato di capire almeno perché la gente si droga?-, è la risposta/domanda.
Il commissario De Stefani non ce l’ha con Massimo. E’ al corrente di tutti i suoi movimenti, dei reati e delle frequentazioni, ma quello che gli interessa è mettere le mani sul boss.
Rudy è un giovane omosessuale che non riesce ad accettarsi. E’ soffocato da una vita di agi e dalla madre (Eva Czemerys), che non rinuncia a trattarlo come un bambino. Il loro è un rapporto ambiguo, ai limiti dell’incesto. Massimo e Rudy si conoscono, e quest’ultimo desidera aiuto per organizzare una festa a base di droga. L’intento reale di Rudy è affrontare un percorso catartico, ma dal finale tragico, d’annullamento.
Massimo, per recuperare la droga, si rivolge al siciliano. Non mancheranno ulteriori risvolti e amare sorprese.
Il film racconta di una gioventù desiderosa di cambiamento, ma impossibilitata alla conquista dello stesso poiché intorpidita dagli agi e gestita da adulti irresponsabili; genitori che si riempiono la bocca di belle parole di condanna, ma imbastite di ignoranza e pregiudizio. -Ma come!, li lascia andare? Qui ci vuole una punizione severissima, esemplare!-, si lamenta un padre di fronte al rilascio di due indiziati. Il commissario risponde: -Quando una ragazza come la sua è già scappata di casa quattro volte e si buca regolarmente da più di un anno, io non me la prendo con quelli che l’hanno ospitata per un paio di settimane, ma con i suoi genitori.-
Nessuno vince alla fine. Il quadro è desolante, talmente desolante che la stessa critica dell’epoca, curiosamente di sinistra, accusò il film di fare confusione. Per “confusione” forse s’intendeva il non leggere la storia da una posizione ben precisa. Qui nessuno si salva, ogni ruolo della società è messo in discussione, invitato a riflettere su sé stesso: dalla chiesa alla scuola, passando per la famiglia e le forze di polizia. La narrazione tenta di restare il più coerente possibile, e si concede verità antipatiche: un figlio può aver ragione sui genitori, e un commissario può esser buono (De Stefani accusa per ben due volte di voler incriminare un genitore, un borghese, una persona “perbene”, e mentre gli studenti gli urlano “fascista” egli non reagisce, non ascolta nemmeno). La storia, e con lei i personaggi, esplodono dall’interno, soccombono da soli, chi con la vita e chi con l’anima. Non arriva il solito rapinatore o trucido violentatore di turno, minaccia esterna.
Film potente, attuale nonostante l’età, imparziale e veritiero. Un racconto di cronaca quotidiana arricchito da coraggiose licenze artistiche.  Notevole la lunga sequenza del viaggio catartico e allucinatorio di Rudy sotto l’effetto di droga.  Rudy è nudo su una spiaggia in posizione fetale, lambito dalle onde. Poi fa l’amore con la madre, ed è una violenza e un piacere allo stesso tempo. Viene aggredito da alcuni uomini-serpente, sinonimo delle sue pulsioni sessuali. La madre muore e viene divorata da cannibali. Rudy fugge nella natura, si tramuta in pianta e viene rosicchiato dagli insetti. Importante anche la colonna sonora, firmata da Albert Verrecchia, Tony Esposito, Cyan, Baba Yaga, Sammy Barbot. Il montaggio è agile e alternato, ricco di suggestioni intrecciate, e i dialoghi interessanti.
Finale amaramente poetico: uno struggente sicario Leopoldo Trieste vaga in Piazza Navona con una gabbia di canarini. Avverrà un omicidio, e il corpo della vittima giacerà inosservato sull’asfalto, tra suore a passeggio, ragazzi che giocano a pallone, gente nei bar, venditori ambulanti, in un tram tram che scorre indifferente.
Leopoldo Trieste è di per sé una poesia nel suo cammeo, tenero e malinconico come sempre, sia che interpreti una commedia o un poliziesco, una vittima o un assassino. Impreziosisce l’opera, chiudendola.
Se il titolo ROMA DROGATA - LA POLIZIA NON PUO’ INTERVENIRE fosse stato “imposto” per confondere gli spettatori, per uniformare il film, palesemente di denuncia, a un genere più popolare di puro intrattenimento, più facile da veicolare? ROMA DROGATA è un film che azzarda: fa una critica della critica.
Il regista Lucio Marcaccini ha realizzato solo questo film, scritto insieme a Vincenzo Mannino.

Recensione a cura di:




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