DAL NOSTRO INVIATO A COPENAGHEN (1970)

Regia/Director: Alberto Cavallone
Soggetto/Subject: A. Cavallone
Sceneggiatura/Screenplay: A. Cavallone
Interpreti/Actors: Jane Avril, Anthony Vernon, George Stevenson, Alain L. Kalsy, Anna Ciucci, Vittorio Fanfoni, Quinto Marziali, Orazio Stracuzzi, Michelle Stamp
Fotografia/Photography: Maurizio Centini
Musica/Music: Franco Potenza
Montaggio/Editing: Anita Cacciolati
Suono/Sound: Remo Ugolinelli
Produzione/Production: Luzi, M. P.
Distribuzione/Distribution: C.I.D.I.F.
censura: 56105 del 22-05-1970

Dal nostro inviato a Copenaghen (1970) - titolo in lavorazione Così U.S.A. - segue di un anno Le salamandre, ma non convince come il precedente lavoro del regista, anche se per apprezzarlo oggi va storicizzato. Cavallone racconta questa storia - confusa e raffazzonata quanto si vuole - di due ex soldati statunitensi sconvolti dagli orrori della guerra in Vietnam in piena tempesta emotiva prodotta dal dissenso della sinistra internazionale. Il pubblico e la critica non apprezzano il film, anche se le ambizioni sono alte: denuncia degli orrori della guerra, delle torture e del destino dei disertori. Vero che la realizzazione non è al massimo, ma sono comunque da apprezzare le sequenze stile mondo - movies girate in Danimarca, che ricordano i mondo - sexy di notte e tanti inserti d’epoca che riproducono gli orrori del Vietnam. La sceneggiatura è confusa, pare improvvisata sequenza dopo sequenza, racconta le vicende di due disertori statunitensi che fuggono dal Vietnam e della Germania Est per rifugiarsi in Danimarca. Restano senza denaro, si adattano a fare i lavori più assurdi, persino l’interprete di fotoromanzi erotici e lo scaricatore portuale. Uno dei due impazzisce e tenta di uccidere una donna sposata con un marito omosessuale dopo aver fatto l’amore con lei. La guerra genera mostri, vuol dire il regista. La parte migliore della pellicola è quella che narra i tentativi di cura della schizofrenia del soldato da parte di uno psichiatra e della sua compagna. Viene fuori un mondo onirico nel quale il soldato è innamorato di una sorella lontana alla quale ha sempre nascosto tutti gli orrori del conflitto. Sequenze indimenticabili rappresentano le torture di giovani vietnamiti ai quali vengono strappate le unghie con le tenaglie. La fotografia sporca di Centini conferisce un tono da documentario, la musica gelida di Potenza riproduce sonoramente il dramma dei soldati, accomunando perseguitati a persecutori. Dal nostro inviato a Copenaghen non è uno dei migliori film di Cavallone, anche perché i mezzi sono modesti, ma i temi affrontati restano importanti: bombardamenti su villaggi inermi, bambini e donne massacrate, prigionieri torturati, droghe usate per dimenticare gli orrori di un assurdo conflitto.

Possiamo definire Dal nostro inviato a Copenaghen un Vietnam - movie drammatico, di livello alto, ambizioso pur se irrisolto, di sicuro un lavoro interessante per chi voglia approfondire un periodo oscuro della nostra storia. Un film di denuncia, interpretato non al meglio da parte del cast, ma ben girato in suggestive location nordiche. Alain N. Kalsyj (Walter Fabrizio) è molto bravo a dare corpo alla follia che s’impadronisce di un soldato con una maschera tragica che lo pervade dall’inizio alla fine della storia. I temi di fondo di Cavallone sono sempre gli stessi: introspezione psicologica, psicanalisi, omosessualità, vuoto esistenziale, incapacità di accettare gli orrori della guerra.  Il regista usa molta camera a mano, zoom anche a sproposito, fotografia da documentario, inserisce tante idee e mette molta carne al fuoco, ma non riesce a confezionare un buon prodotto cinematografico. Resta un film irrisolto, troppo ideologico per considerarlo compiuto, confuso a livello narrativo. Si ricorda -come sempre nei film di Cavallone - un incipit violento, scioccante, che nostra un ragazzo ucciso dalla polizia a Berlino Est. Un film che si sviluppa come un mondo - movie con la trama, una fiction d’inchiesta nell’ambiente sconosciuto dei porno shop danesi e in un passato di torture belliche. Sconvolgenti le sequenze di una Saigon distrutta, dei villaggi incendiati e delle bombe al napalm che sfigurano i soldati vietnamiti. Le sequenze sexy non mancano, ma sono sempre torbide e funzionali alla storia, interpretate quasi con disgusto da interpreti non molto a loro agio. Brava Jane Avril come compagna del medico, interprete di un ruolo da finta sorella per assecondare la follia del soldato e per liberarlo dai fantasmi del passato. Ottima la fotografia nordica, anche alcune sequenze sono eccessivamente lunghe (la corsa in mezzo agli alci) e spesso inutili. Ben realizzate alcune sequenze belliche che fanno classificare la pellicola anche come un film di guerra. Troppa ideologia fa soffrire la storia, purtroppo.
Rassegna critica: Pino Farinotti (una stella): “Storia piuttosto confusa di due marines reduci dal Vietnam che si rifugiano a Copenaghen”. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “A Cavallone non faceva certo difetto il tempismo nella denuncia degli orrori della sporca guerra: ma il film è confuso, assai datato anche nella confessione - zoom e immagini di repertorio a iosa - e al di sotto delle sue ambizioni. Obbligatorio (anche se assai pudibondo) il tour nell’industria del porno della capitale danese”.
Marco Giusti (Stracult): “Curioso tentativo di girare in Italia un film sul Vietnam visto dalla parte dei disertori. Seguiamo a Copenaghen il dramma di due soldati americani che non riescono a superare lo shock della guerra”. Il regista non amava il titolo imposto dalla produzione, avrebbe preferito Così U.S.A., ma le esigenze distributive imposero la denominazione commerciale. “C’era questa storia che io riuscii ad avere tramite mia cugina, in Germania, sui disertori americani che si fermavano a Wiesbaden e venivano aiutati da un gruppo di scandinavi che li faceva scappare affinché non tornassero più nel Vietnam. Il film venne girato prima che si venisse a sapere della tragedia di My Lai” (Alberto Cavallone, intervista a Nocturno). Pare che la produzione volesse tagliare il film, definito troppo politico e vistosamente antiamericano. Il regista conclude: “Ci sono, a livello di stile, troppi zoom che potevano essere evitati e ci sono troppe reminescenze teatrali. Però, tutto sommato, era una denuncia di qualcosa che in quel momento mi interessava e che penso dovesse interessare tutti”. Confermiamo, le intenzioni sono ottime e le idee che bollono in pentola molte e importanti. La confezione scenografica e fotografica non sarebbe male. I difetti peggiori sono una sceneggiatura confusa e una recitazione approssimativa. In ogni caso da recuperare.

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