PAURA NELLA CITTA' DEI MORTI VIVENTI (1980)

 

Regia/Director: Lucio Fulci
Soggetto/Subject: Lucio Fulci, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura/Screenplay: Lucio Fulci, Dardano Sacchetti
Interpreti/Actors: Christopher George (Peter Bell), Katriona MacCall [Catherine MacCall] (Emily), Carlo De Mejo (Jerry Hill), Antonella Interlenghi (Mary Woodhouse), Janet Agren (Sandra), Giovanni Lombardo Radice, Daniela Doria, Venantino Venantini, Fabrizio Jovine, Luca Paisner, Michele Soavi, Enzo D'Ausilio, Adelaide Aste, Luciano Rossi, Robert Sampion
Fotografia/Photography: Sergio Salviati
Musica/Music: Fabio Frizzi
Costumi/Costume Design: Massimo Antonello Geleng
Scene/Scene Design: Massimo Antonello Geleng
Montaggio/Editing: Vincenzo Tomassi
Suono/Sound: Ugo Celani
Produzione/Production: Dania Film, Medusa Distribuzione, National Cinematografica
Distribuzione/Distribution: Medusa Distribuzione
censura: 75480 del 07-08-1980
Altri titoli: City of the Living Dead, The Gates of Hell, Fear in the City of the Living Dead, Frayeurs (La paura), Zombie hing am Glockenseil, Nella città dei morti viventi

Il titolo originario era solamente “Paura”: poi, sull’onda del successo ottenuto dai film che avevano come protagonisti gli zombi (e dal film precedente di Fulci), il primo “tassello” della cosiddetta “trilogia della morte” del regista romano divenne “Paura nella città dei morti viventi”, città identificata nella pellicola come Dunwich, in omaggio allo scrittore Lovecraft, il “solitario di Providence”. La parola “paura”, che già invade lo schermo nei titoli di testa con la scritta a caratteri cubitali dopo un urlo agghiacciante su sfondo nero, è ossessivamente ricorrente lungo lo svolgersi della vicenda: è la categorica e frettolosa spiegazione che viene data alle numerose morti, e quasi tutti i personaggi del film la ripetono con frequenza nei dialoghi; e, forse, è proprio la mancanza di paura, il suo chiudere gli occhi e non accettare di esserne vittima, che salva Jerry/Carlo De Mejo dal suo faccia a faccia con lo zombi. Il film di Fulci è una rassegna di volti e di atrocità. Di questi volti, con gli occhi spalancati come sempre sull’orrore, fanno parte quello un po’ stolido e molto “americano” di Christopher George (un attore che il regista non amava), adatto comunque a interpretare l’”eroe” della situazione (fino alla sua imprevista uscita di scena verso il finale); quello delicato dagli occhi cerulei dell’attrice cara a Fulci Catherine MacColl; quello dotato di una bellezza altera ed elegante, ma fredda, di Janet Agren (caratteristiche valorizzate ancora maggiormente dalla luce blu che lo “dipinge” quando la ritroviamo tra le file dei morti viventi nella cripta); quello stralunato di Giovanni Lombardo Radice, il “capro espiatorio” del film destinato all’unica morte per mano di un essere umano; senza dimenticare l’inquietante sguardo degli occhi, privi di sopracciglia, della medium che presiede alla seduta spiritica iniziale e che ha il ruolo di una novella “Cassandra”. Le morti che costellano il film sono, come da tradizione nel cinema fulciano, rappresentate in maniera estremamente esplicita, e la macchina da presa non distoglie mai lo “sguardo”; la maggior parte di esse è, nemmeno troppo velatamente, una versione blasfema e orrorifica di elementi religiosi: padre Thomas si impicca come un novello Giuda, portandosi dietro un segreto che non viene svelato ma che fa da catalizzatore per l’apertura delle porte dell’Inferno; le vittime del fantasma di quest’ultimo piangono lacrime di sangue; la povera Emily riceve una sorta di battesimo/estrema unzione con una putrida poltiglia verminosa. I riferimenti religiosi riletti in questa chiave sono presenti anche nella scena della pioggia “biblica” di vermi e nell’incontro finale nella cripta con il reverendo, in un luogo che ha l’aspetto di una cappella dai mosaici colorati. L’aspetto teatrale della messinscena è altrettanto evidenziato in questa sequenza dalla solenne musica di Fabio Frizzi e dalle scenografie del labirinto che porta al luogo dello scontro finale: un insieme di teschi, ragnatele drappeggiate come tende, corpi decomposti pronti a riprendere vita. “Poesia del macabro”, dunque, com’è stato più volte scritto, ravvisabile anche nella costruzione della scena del seppellimento affrettato della McColl (preceduto da un siparietto quasi ironico che ha per protagonisti due svogliati becchini):  il contrasto tra la veste scura del “cadavere” e la macchia di colore della rosa che stringe tra le mani, il cui petalo viene mosso dalla ripresa del respiro, che “appanna” lo schermo. Alla “poesia del macabro” fa invece da contrappunto la “materialità” dell’esecuzione del personaggio di Bob, “agnello sacrificale” immolato sull’altare dell’ignoranza e dell’ottusa e dannosa faciloneria popolare: uno dei “padri di famiglia” fa giustizia sommaria del ragazzo con un trapano elettrico (in una della scene più scioccanti del film, che dimostra come gli effetti speciali usati in questo film siano estremamente ben utilizzati e non debbano essere considerati tutt’oggi così “superati”). Il personaggio interpretato da Giovanni Lombardo Radice è forse il personaggio al quale la parola “paura” è più familiare; la sua presenza durante lo svolgersi della vicenda è infatti caratterizzata da una perenne fuga e quasi sempre lo ritroviamo, prima della sua corsa in preda al terrore, raggomitolato momentaneamente in posizione fetale, come nella scena dello scantinato dove riceve Emily, oppure sui sedili della macchina dove lo sorprende il suo assassino. Un personaggio forse minore, ma che nel film assume connotazioni insolitamente sinistre, è poi quello del bambino fratello di Emily, in omaggio a quell’affermazione, attribuita a James, che concluderà il seguente film di Fulci “Quella villa accanto al cimitero”: “Nessuno saprà mai se i bambini sono mostri o i mostri sono bambini”. Durante quasi tutto il film, Il ragazzino si comporta in maniera molto “comune”: piange alla morte della sorella, è terrorizzato nello scorgerla alla finestra come “morto vivente”, ma viene insolitamente “risparmiato” da uno zombi e lasciato fuggire… e quando ricompare nel finale e corre verso i sopravvissuti che alla sua vista passano da un’espressione felice e sollevata ad una inquieta e dubbiosa… lo schermo si frantuma, lasciandoci al buio e in compagnia dell’urlo agghiacciante che avevamo sentito anche all’inizio. La parola “fine” non è stata messa definitivamente: a questo ci ha abituati, e ci abituerà, Lucio Fulci nei suoi horror.

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